Baracca, Francesco (1888-1918)

Nos amis Irene Guerrini et Marco Pluviano nous ont envoyé cette notice. Nous en donnons le texte original en italien, afin de marquer le caractère international de ce dictionnaire. Il est suivi de la traduction.

Francesco Baracca nasce a Lugo di Romagna, importante centro agricolo e commerciale della provincia di Ravenna, il 9 maggio 1888, in una delle principali famiglie della città. Il padre, Enrico, è un ricco possidente terriero. E’un massone, ed è molto ben inserito nella élite di un’area che travalica Lugo, per comprendere anche altri importanti centri agricoli vicini: un territorio florido ma attraversato da forti contrasti politici e sociali, la cui agricoltura si sta modernizzando. La madre, Paola appartiene ad una famiglia dell’aristocrazia provinciale, i conti Biancoli e, al contrario del marito, è molto religiosa.
Francesco frequenta il liceo a Firenze, per poi iscriversi all’Accademia militare di Modena. La sua scelta non rientra nelle tradizioni di famiglia, e infatti il padre dapprima non la approva: avrebbe preferito che si dedicasse all’amministrazione della prospera azienda di famiglia. Francesco alla fine ottiene il suo consenso, anche grazie al sostegno materno, e inizia i corsi all’Accademia nell’autunno 1907, per diplomarsi nell’estate del 1909. Dopo aver frequentato il corso annuale presso la Scuola di applicazione di cavalleria, nel luglio 1910 viene nominato sottotenente di uno dei reparti di maggior prestigio, il 2° Reggimento di Cavalleria Piemonte Reale. Per due anni divide il proprio tempo tra i doveri militari, la passione per l’equitazione, e la vita brillante di Roma, dove è di guarnigione. La svolta nella vita, personale e militare, giungerà nel 1912 quando, forse ispirato dalle imprese degli aviatori italiani in Libia (molti dei quali erano cavaleggeri), o forse dalla più generale passione per i motori e la tecnologia che pervade quegli anni, chiede di partecipare ai corsi per ottenere il brevetto da aviatore. E a inizio maggio 1912 giunge in Francia, a Reims, presso la scuola di volo del costruttore aeronautico Hanriot dove, il 9 luglio, otterrà il brevetto numero 1.037.
Tornato in Italia vivrà le oscillanti vicende dei primi reparti di aviazione, dei quali l’Esercito non ha ancora deciso che uso fare. Al termine dei lunghi mesi di incertezza e tensione della neutralità italiana, verrà ancora una volta inviato in Francia per addestrarsi sui nuovi aerei che saranno forniti all’Italia. Giungerà a Parigi il 23 maggio (il giorno precedente la dichiarazione di guerra italiana all’Austria-Ungheria), e nelle lettere al padre descriverà con passione la vita dei reparti aeronautici combattenti e gli scontri a cui ha occasione di assistere.
Baracca tornerà in patria alla fine di luglio, e inizierà per lui la guerra aviatoria come pilota da caccia. Un’esperienza che dapprima non è entusiasmante, ed è anzi spesso frustrante: nessun duello, nessuna delle acrobazie a cui aveva assistito in Francia, solo routine e inferiorità tecnica rispetto al nemico. Deve aspettare il 7 aprile 1916 per ottenere la prima vittoria, alla quale ne seguiranno altre trentatre, che lo renderanno il pilota italiano della Grande Guerra con il maggior numero di vittorie, così da essere soprannominato Asso degli assi. Sopravvissuto al disastro di Caporetto, verrà ucciso il 19 giugno 1918 durante un volo di mitragliamento di truppe nemiche sul Montello durante l’Offensiva del Solstizio austriaca.
La vita di Baracca fu complessa, e non facilmente inquadrabile: amante della bella vita, delle donne, del teatro d’opera, del ballo, ma anche soldato serio, preciso e coscienzioso; coraggioso ma poco incline a comportamenti spericolati. Amante della tecnica e della tecnologia, ma anche del coraggio e dell’ardimento e di valori tradizionali quali quelli della cavalleria. Estremamente affezionato alla madre, ma desideroso di condurre una vita autonoma, tanto da non accennarle mai a nessuna delle sue numerose relazioni amorose, e da indirizzare principalmente al padre le lettere dalla Francia durante i due periodi di addestramento.
Tutte queste caratteristiche di Francesco Baracca emergono dal suo epistolario, a cui si deve aggiungere un diario che copre il periodo 21 agosto 1915 – 11 aprile 1916. Le lettere note sono ben più di un centinaio, e vanno dagli anni del liceo ai giorni precedenti la morte. La grande maggioranza sono destinate alla madre, e una più piccola aliquota al padre; è però certo che Francesco scrisse con grande frequenza anche ad amici, fidanzate e amanti, conoscenti di entrambi i sessi. Infatti, nelle lettere che questi gli indirizzarono vi sono frequenti riferimenti alle sue missive. La presenza sovrabbondante delle lettere ai genitori è dovuta a due ragioni: da un lato, il legame forte e moderno (usavano il tu e non il voi) che univa madre e figlio, e una certa complicità maschile che lo legava al padre; dall’altro il fatto che la famiglia ha trasformato le lettere del figlio in una sorta di memoriale, donandole alla Biblioteca Comunale di Lugo “F. Trisi”, ed al Museo del Risorgimento di Milano e, in minor misura, anche alla 91ª Squadriglia da caccia, il reparto che comandava.
Egli fu dunque un corrispondente attento, che utilizzava le lettere per mantenere vivi i rapporti interpersonali di tutti i tipi, ma anche per trasmettere la propria visione della guerra e, prima, della vita militare. Durante il conflitto, poi, le lettere serviranno anche a trasmettere alla madre, e tramite lei ad un assai più ampio uditorio, l’immagine di sé che gli aviatori iniziavano a costruire. Non sono infrequenti le lamentele contro la scarsa considerazione nella quale sarebbero tenuti gli aviatori e ancor più, nella prima fase del conflitto, contro la cattiva organizzazione dei singoli reparti e della specialità aviatoria nel suo complesso. Ma quella che emerge con vigore dalle lettere è la descrizione dell’esperienza del volo e del combattimento, anche con attenzione alla percezione che di essi ha chi è a terra. Ad esempio, riferendosi alla sua vittoria dell’11 febbraio 1917, scrive alla madre: “Immagina quale spettacolo hanno veduto da terra tutta Udine e decine di migliaia di persone! Quattro o cinque apparecchi a 150, 170 chilometri all’ora, a poche decine di metri gli uni dagli altri, fra il fuoco delle mitragliatrici”.
Francesco Baracca è quindi, attraverso le sue lettere, il testimone italiano più attento di un tipo di guerra completamente nuova: quella aerea. Con la sua scrittura formalmente corretta, priva di voli pindarici e dei facili eroismi che popolano le lettere di tanti giovani ufficiali, riesce a rendere la difficoltà del volo e la sua pericolosità nonostante l’autocensura che applica alle situazioni più pericolose per moderare l’apprensione materna.
Le lettere di Baracca sono quindi atipiche nel contesto dei giovani ufficiali: nonostante l’età dello scrivente, che morirà a 30 anni appena compiuti, sembrano inviate da un uomo maturo che abbina ad un forte patriottismo e a un’accettazione convinta del conflitto, la coscienza della sua durezza e ferocia.
Alcune lettere di Baracca o parti di esse sono state utilizzate in volumi a lui dedicati, a partire dagli anni Venti del Novecento. Anche nel nostro volume “Francesco Baracca una vita al volo. Guerra e privato di un mito dell’aviazione” (Udine, 2000), abbiamo utilizzato largamente la sua corrispondenza e il diario.
Irene Guerrini et Marco Pluviano, septembre 2016

Traduction :
Francesco Baracca est né le 9 mai 1888 à Lugo di Romagna, important centre agricole et commercial de la province de Ravenne, dans une des familles principales de la ville. Son père, Enrico, est un riche propriétaire terrien. Il est franc-maçon et très bien inséré dans l’élite du territoire qui, en plus de Lugo, comprend d’autres importants centres agricoles voisins : une région florissante mais traversée de forts contrastes politiques et sociaux, dont l’agriculture est en pleine modernisation. La mère, Paola, appartient à une famille de l’aristocratie de la province, celle des comtes Biancoli, et, au contraire de son mari, elle est très portée sur la religion.
Francesco fréquente le lycée à Florence, puis s’inscrit à l’Académie militaire de Modène. Ce choix ne correspond pas aux traditions familiales et son père, d’abord, ne l’approuve pas : il aurait préféré qu’il se consacre à la gestion de la prospère exploitation familiale. Francesco obtient enfin son consentement, grâce aussi au soutien de sa mère. Il commence ses cours à l’Académie à l’automne 1907 et en sort diplômé en été 1909. Après un an de cours à l’Ecole d’application de la cavalerie, il est nommé sous-lieutenant en juillet 1910 dans une des unités de plus grand prestige, le 2e régiment de cavalerie Piemonte Reale. Pendant deux ans, il partage son temps entre ses devoirs militaires, sa passion pour l’équitation et la vie brillante de Rome où il est en garnison. Le tournant de sa vie personnelle et militaire se produit en 1912 quand, peut-être inspiré par l’action des aviateurs italiens en Libye (plusieurs d’entre eux sont des cavaliers), ou par la passion plus générale pour les moteurs et la technologie qui marque ces années-là, il choisit de suivre les cours pour obtenir le brevet de pilote. Au début de mai 1912, en France, à Reims, il rejoint l’école de pilotage du constructeur aéronautique Hanriot où, le 9 juillet, il obtient le brevet n° 1037. De retour en Italie, il constate les tergiversations de l’Armée quant aux premières unités aériennes : elle n’avait pas décidé de l’usage qu’elle allait en faire. Au bout des longs mois d’incertitude et de tension durant la période de neutralité de l’Italie, il est encore une fois envoyé en France pour s’entrainer sur les nouveaux avions qui seraient fournis à l’Italie. Il arrive à Paris le 23 mai (le jour précédant la déclaration de guerre de l’Italie à l’Autriche-Hongrie) et, dans de nombreuses lettres à son père, il décrit avec passion la vie des unités aériennes combattantes et les affrontements auxquels il a eu l’occasion d’assister.
Baracca revient dans sa patrie à la fin de juillet 1915, et commence pour lui la guerre dans l’aviation comme pilote de chasse. C’est une expérience qui, au début, n’est pas enthousiasmante, mais souvent frustrante : aucun duel, aucune des acrobaties auxquelles il avait assisté en France, seulement la routine et l’infériorité technique par rapport à l’ennemi. Il doit attendre le 7 avril 1916 pour obtenir sa première victoire, à laquelle vont succéder trente-trois autres qui ont fait de lui le pilote italien de la Première Guerre mondiale avec le plus de victoires, l’As des As. Après le désastre de Caporetto, il est tué le 19 juin 1918 au cours d’un vol de mitraillage des troupes ennemies sur le Montello, pendant l’offensive autrichienne dite du Solstice.
La vie de Baracca est complexe et difficile à glisser dans un cadre: amant de la belle vie, des femmes, de l’opéra, du bal, mais aussi soldat sérieux, précis et consciencieux, courageux mais peu enclin à des comportements inutilement périlleux. Passionné par la technique et la technologie, courageux, il était marqué par les valeurs traditionnelles telles que celles de la cavalerie. Plein d’affection pour sa mère, il était cependant désireux de mener une vie autonome jusqu’à ne parler à personne de ses nombreuses relations amoureuses, et il adressa de préférence à son père les lettres de France pendant ses deux périodes d’entrainement.
Toutes ces caractéristiques de Francesco Baracca apparaissent dans sa correspondance, à laquelle il faut ajouter un journal personnel qui couvre la période du 21 août 1915 au 11 avril 1916. Il y a bien plus d’une centaine de lettres qui vont des années de lycée jusqu’aux jours précédant sa mort. La grande majorité sont adressées à sa mère et une plus petite quantité à son père, mais il est certain que Francesco écrivait très fréquemment aussi à ses amis des deux sexes, à ses fiancées et amantes. En effet, dans les lettres qu’ils lui envoyaient, se trouvent de fréquentes références à son propre courrier. La présence surabondante des lettres à ses parents est due à deux raisons : d’un côté, le lien fort et moderne (usage du “tu” et non du “vous”) qui unissait la mère et le fils, et une certaine complicité masculine qui le reliait à son père ; de l’autre, le fait que la famille a transformé les lettres du fils en une sorte de mémorial confié à la bibliothèque municiple F. Trisi de Lugo, et au musée du Risorgimento de Milan, et, dans une moindre mesure à la 91e escadrille de chasse, l’unité que Francesco commandait.
Il fut donc un correspondant attentif qui utilisait sa correspondance pour maintenir vivants les rapports interpersonnels de toute sorte, mais aussi pour faire connaitre sa propre vision de la guerre, et d’abord de la vie militaire. Pendant le conflit, les lettres servaient aussi à transmettre à sa mère et, par son intermédiaire, à un auditoire beaucoup plus large, l’image de soi que les aviateurs commençaient à façonner. Ses lamentations portaient sur la considération péjorative dans laquelle étaient tenus les aviateurs et, encore plus, dans la première phase de la guerre, sur la mauvaise organisation des unités et la mauvaise compréhension des particularités complexes de l’aviation. Mais ce qui émerge avec vigueur des lettres, c’est la description de l’expérience du combat en vol, avec aussi la perception attentive de ce qu’on voyait au sol. Par exemple, à propos de sa victoire du 11 février 1917, il écrivait à sa mère : “Imagine quel spectacle j’ai vu vers le bas, tout Udine et des dizaines de milliers de gens ! Quatre ou cinq appareils volant à 150 ou 170 kilomètres à l’heure, peu éloignés les uns des autres, dans le feu des mitrailleuses.”
Francesco Baracca est ainsi, à travers ses lettres, le témoin italien le plus attentif de ce type de guerre complètement nouveau : la guerre aérienne. Par son écriture de forme correcte, dépourvue d’exagérations rhétoriques et des héroïsmes faciles qui remplissent les lettres de tant de jeunes officiers, il réussit à rendre les difficultés du vol et ses dangers, en tenant compte de l’autocensure qu’il applique aux situations les plus périlleuses pour atténuer l’appréhension maternelle.
Les lettres de Baracca sont atypiques parmi celles des jeunes officiers. Lui-même était jeune : il est mort à 30 ans à peine. Mais elles semblent écrites par un homme mûr qui ajoutait à un fort patriotisme et à une acceptation convaincue du conflit, la conscience de sa dureté et de sa férocité.
Des lettres de Baracca ou des extraits de celles-ci ont été utilisées dans des livres qui lui sont consacrés, à partir des années 1920. Dans notre livre, Francesco Baracca, una vita al volo. Guerra e privato di un mito dell’aviazione (Udine, 2000), nous avons aussi largement utilisé sa correspondance et son journal personnel.
Irene Guerrini et Marco Pluviano, septembre 2016. (Traduit par Rémy Cazals.)

Share

Elain, Auguste (1885- ?)

Les éditeurs fournissent très peu d’informations sur ce témoin, qu’ils prénomment « Eugène » (par erreur) dans le titre du document et « Auguste » dans le texte de présentation.
Auguste Elain est né le 26 mars 1885 à Grazay (Mayenne), de parents agriculteurs. Il effectue son service militaire à Mayenne. En août 1914, il est mobilisé au 130e régiment d’infanterie. Sa conduite au front lui vaudra plusieurs citations : à l’ordre du régiment (avril 1916), à l’ordre du 4e corps d’armée (octobre 1916), à l’ordre de la division (juin 1917).
Le 15 juillet 1918, il est fait prisonnier par les Allemands, avec presque tout son bataillon, au massif de Moronvilliers (Marne). Les prisonniers rejoignent le camp de Bethinville, à l’est de Reims. Son grade de sous-officier adjudant lui permet d’être regroupé avec les officiers, qui sont séparés des soldats et sergents.
Auguste Elain commence à rédiger un carnet de captivité. En six mois, il va connaître plusieurs camps d’internement en Allemagne : à Rastatt (Bade-Wurtemberg), où ils sont 450 officiers et adjudants (23 juillet–3 août) ; à Giessen (Hesse), où les adjudants sont envoyés pour se faire vacciner (3 août–10 septembre) ; à Meschede (Westphalie), où ils sont 1200 sous-officiers français et anglais (11 septembre–5 octobre). La discipline y est plus sévère et ils ressentent la faim ; leur camp jouxte celui des prisonniers russes et italiens. Puis, à Stargard (Poméranie) (8 octobre–3 janvier 1919), dans un camp occupé par des prisonniers russes, serbes et roumains, qui y sont durement traités ; l’arrivée des Français améliorera leur condition.
À partir de l’armistice signé le 11 novembre 1918, le drapeau rouge est hissé à la grille du camp et les soldats ne saluent plus les officiers, tandis que les prisonniers attendent leur rapatriement en disposant de plus de liberté. Le 21 décembre, un détachement de 2000 Russes quitte le camp pour rejoindre la Russie à pied. Le 3 janvier 1919, les derniers Français de Stargard embarquent à Stettin sur un navire allemand à destination de Copenhague ; le 4, ils quittent cette ville sur un transatlantique américain à destination de Cherbourg (Manche), où ils arrivent le 10 janvier. La captivité est terminée et le récit d’Auguste Elain s’arrête là.

Le site des archives du Comité International de la Croix-Rouge permet de retrouver sa fiche de prisonnier établie au nom de : « Elain, Auguste François, adjudant, 130e RI, fait prisonnier le 15.07.1918, né le 26.03.1885 à Grazay en Mayenne » (http://grandeguerre.icrc.org/fr) (fiche : P 91691 / n° 53).
Le carnet d’Auguste Elain a été transmis aux Archives départementales du Calvados, qui l’ont édité dans un recueil contenant deux autres témoignages : celui de l’artilleur Albert Masselin et celui de l’aviateur Guy Blanchet de Pauniat. Le recueil ne fournit aucune information sur la vie d’Auguste Elain après la guerre.

Ce témoignage est celui d’un homme instruit, qui observe avec intérêt les paysages allemands traversés par son convoi de prisonniers. Comme adjudant, il ne sera jamais soumis au travail sur le front allemand, ni dans les fermes ou les usines allemandes. Il note, en voyant les 2000 hommes qui arrivent dans le camp, le 15 août 1918 : « Ce sont des caporaux et des soldats pris le même jour que nous, mais qui sont restés un mois à l’arrière du front à travailler sans pouvoir écrire à leur famille. Ils sont tous déguenillés, maigres et font peine à voir. »
D’un camp à l’autre, la vie est rythmée par les mêmes préoccupations : envoi de cartes-lettres aux familles, lutte contre les puces et poux, attente des vivres du comité de secours, perception de la solde, colis ouverts par le contrôle, crainte de l’hiver qui approche. Les distractions se limitent aux conférences instructives données par des prisonniers, aux soirées récréatives, à la messe du dimanche, à la lecture des journaux qui apprennent le recul des armées allemandes.
Les prisonniers peuvent améliorer leur condition en recourant aux neutres, tel l’ambassadeur d’Espagne à Berlin, auquel une lettre de réclamation est adressée le 16 août afin d’obtenir le pain de la veille non distribué. Au camp de Stargard, c’est la possibilité de vendre des produits reçus dans les colis ; des Russes ou des Roumains achètent aux Français et Anglais ce qu’ils ont, notamment des savons, du chocolat et des chaussures devenus introuvables en Allemagne, et les revendent ensuite aux Allemands au prix fort (17.11.1918).
Le 10 novembre, la lecture d’un journal leur apprend les conditions de l’armistice ; Auguste Elain juge que « les articles sont durs pour les vaincus ». Les officiers allemands de Stargard invitent les prisonniers à rester calmes, et Auguste Elain note : « Nous serons calmes jusqu’à notre rapatriement, mais camarades jamais, la vieille haine existe toujours » (10.11.1918). Le 6 décembre, il remarque « dans la ville un grand pavoisement, drapeaux et guirlandes en l’honneur du régiment de cette ville qui doit rentrer incessamment du front. Toutes les villes d’Allemagne ont été invitées par le gouvernement à pavoiser en l’honneur des braves qui rentrent ». Le 30 décembre, à la veille de leur départ, les Français font graver sur une plaque de marbre les noms de leurs quinze camarades enterrés dans le cimetière du camp, qui compte un millier de tombes.
Auguste Elain est sensible à la vie des femmes allemandes : ce sont les fermières de Meschede travaillant dans les champs (septembre 1918), les mères recherchant du savon (20.11.1918), et cette mère lui demandant si les prisonniers allemands rentreraient bientôt : « Je lui ai répondu que je n’en savais rien, mais que vraisemblablement, il faudrait encore bien une année avant qu’ils soient là, elle a poussé un soupir et m’a dit qu’elle avait un fils prisonnier à Chartres. J’ai parfaitement compris son émoi » (29.12.1918).

Cahiers de Mémoire. La Guerre de 1914-1918, textes édités et présentés par Françoise Dutour, Louis Le Roc’h Morgère, Hélène Tron, Conseil général du Calvados, Direction des Archives départementales, 1997, 137 pages, « Carnet d’Eugène Elain », p. 108-136.

Isabelle Jeger, août 2016

Share

Masselin, Albert (1889-1949)

Albert Masselin a retracé les étapes de sa jeunesse dans ses carnets de guerre à la date du 1er novembre 1914 ; des informations supplémentaires sont fournies par les éditeurs.
Né à Besançon en 1889, second fils de six enfants. La famille quitte Besançon pour Le Havre (Seine-Maritime). Après son certificat d’études, le jeune Albert rejoint le monde du travail en intégrant l’usine d’armement Schneider située à Harfleur (près du Havre). La mort de son frère entraîne la misère, mais Albert réussira à gravir les échelons de l’usine, passant de simple tourneur à dessinateur. Il milite au Sillon de Marc Sangnier, s’occupe du patronage paroissial et travaille à la rédaction du journal Havre-Éclair. Après son service militaire accompli à Cherbourg, il continue son activité chez Schneider.
Mobilisé en août 1914, il est maréchal des logis au 1er régiment d’artillerie à pied. C’est un artilleur sur voie ferrée, chargé d’une batterie d’affûts trucks (canons montés sur des plates-formes de chemin de fer), qui peuvent lancer des obus de 100 kilos.
Partie du Havre le 3 octobre, la batterie tire pour la première fois près d’Anvers, le 5. Les jours suivants sont marqués par un repli sur Dunkerque, où affluent des milliers de réfugiés démunis. Le 21 octobre, c’est le départ pour Verdun et sa région, où Albert Masselin reste jusqu’en mars 1915. Après quelques semaines comme agent de liaison entre les armées française et anglaise, il peut reprendre sa place dans l’usine d’armement d’Harfleur et retrouver la vie civile. Il se marie en 1917 et aura trois enfants. En 1924, il crée une entreprise de matériel électrique à Caen (Calvados). Pendant la seconde guerre mondiale, il participe à la Résistance.

Albert Masselin rédige ses carnets du 3 octobre 1914 au 17 mars 1915, puis décide d’en suspendre l’écriture, faute de contenu militaire à inscrire. Les carnets ont été transmis par son fils aux Archives départementales du Calvados, qui les ont édités dans un recueil contenant deux autres témoignages : celui de l’aviateur Guy Blanchet de Pauniat et celui du prisonnier Eugène (Auguste) Elain. Signalons une erreur sur la page de titre du texte d’Albert Masselin (p. 9), indiquant « 12e régiment d’infanterie » au lieu de « 1er régiment d’artillerie à pied ».

Ce que l’on retient de ce témoignage, ce sont les longues périodes d’inactivité de la batterie. Les ordres de tirs n’arrivent pas ou le mauvais temps les empêche. Entre octobre 1914 et mars 1915, la batterie ne connaît qu’une quinzaine de journées de tirs. L’ennui gagne les artilleurs. Albert Masselin note :       « Les ordres n’arrivent toujours pas et les hommes sont durs à tenir » (19.11.1914). « Ce soir, le lieutenant m’a annoncé que le général Joffre désirait être renseigné sur notre compte. Si ce désir nous valait un voyage et une bataille, quelle joie » (21.11.1914). Et encore : « Le tir aura lieu sans doute demain. […] Enfin nous allons donc travailler un peu. Ce n’est pas malheureux : depuis le temps que nous étions inoccupés, un peu de bruit et de mouvement nous feront du bien » (02.12.1914). Au soir du 20 décembre marqué par une pleine activité, il écrit : « A 2 heures, 212 coups ont été expédiés. J’en suis bleu. Je n’aurais jamais cru que les hommes et les pièces puissent supporter pareille chose. »
Le 24 octobre 1914, il relate la visite du député et officier Pascal Ceccaldi (1876-1918) : « […] Ceccaldi a fait un tas d’allusions, mettant la responsabilité du manque d’artillerie lourde sur Poincaré et Millerand et glorifiant Caillaux qui a voté des crédits à cet effet. » Ceccaldi s’était opposé à la loi des 3 ans votée en 1913 pour augmenter la durée du service militaire, et Albert Masselin regrette de ne pas pouvoir le lui reprocher.
En novembre, il discute avec un collègue sur les qualités distinctives des races : « Il [G. Demars] ne veut pas croire que les Français font partie de la première race du monde. S’il trouve qu’il y a au monde un autre peuple ayant nos qualités et susceptible de présenter le spectacle de la France aux mois d’août et septembre 1914, je serais heureux qu’il me l’indique » (14.11.1914).
Ses carnets de guerre sont aussi un journal intime, auquel il confie abondamment l’espoir amoureux qui le fait vivre (la femme aimée deviendra son épouse) et la piété religieuse qui l’anime (il est catholique pratiquant).
D’octobre 1914 à mars 1915, Albert Masselin ne mentionne aucun mort ni blessé parmi les militaires de son entourage. Il a conscience des avantages dont bénéficient les artilleurs, logés dans des wagons : « Je pense aux malheureux soldats qui sont dans la campagne sans abri. Comme ils doivent souffrir ! j’ai déjà vu ramener plusieurs de ces malheureux qui avaient les pieds gelés. Ils étaient dans un état pitoyable, mais leur moral était toujours bon. Quelques-uns cependant ne paraissaient plus réfléchir à rien, ils étaient dans une espèce d’engourdissement physique qui paraissait les priver de leurs facultés mentales. Ceux qui n’auront pas vécu près des lignes de feu, sauront-ils jamais apprécier le dévouement de ces soldats qui vivent dans les tranchées ? » (25.11.1914).

Cahiers de Mémoire. La Guerre de 1914-1918, textes édités et présentés par Françoise Dutour, Louis Le Roc’h Morgère, Hélène Tron, Conseil général du Calvados, Direction des Archives départementales, 1997, 137 pages, « Carnets d’Albert Masselin », p. 9-34.

Isabelle Jeger, juillet 2016

Share

Marchand, Octave (1881-après le 1er février 1963)

Octave Marchand est né à Saint-Péravy-la-Colombe, dans le Loiret. En août 1914, il est clerc de notaire à Montlhéry (Seine-et-Oise), marié, père de trois enfants. Il apprendra la naissance de son quatrième enfant en octobre 1914.
Le 3 août, il rejoint le 131e RI à Orléans, où il est affecté comme sergent fourrier à la 25e Cie de dépôt. Il assiste à l’arrivée des réservistes, des « déserteurs », des engagés volontaires (Alsaciens-Lorrains, Russes, Polonais, Italiens) et des premiers blessés à partir du 21 août.
Le 26 août, Octave part au front. Il rejoint le 131e RI en Argonne et devient sergent fourrier au 1er bataillon. Le régiment se déplace dans la région comprise entre Bar-le-Duc et Dun-sur-Meuse, en subissant de nombreuses pertes. Vient ensuite la vie des tranchées : en forêt d’Argonne, à Vauquois, à Boureuilles, à la cote 263.
Le 23 novembre, il assiste à l’exécution de deux soldats, l’un du 131e, l’autre du 113e, et note que « beaucoup de soldats murmurent et critiquent cette exécution ».
En janvier 1915, Octave Marchand est devenu le plus ancien sous-officier de sa Cie. Cet état lui vaut d’être nommé, deux mois plus tard, au Quartier Général du 5e Corps d’armée basé à Clermont-en-Argonne, où il échappe momentanément aux dangers du front.
Le 1er juin, il reprend sa fonction de sergent fourrier au 131e RI, combattant toujours en Argonne : cotes 263 et 285, ravin des Meurissons.
Le 1er juillet, il est désigné comme fourrier adjoint au Major du cantonnement, situé au Claon, en forêt d’Argonne. Il y restera un an, jusqu’en juillet 1916, étant chargé des travaux d’aménagement et de l’inhumation des soldats décédés à l’ambulance. En juillet et août 1915, il déplore l’attitude des 300 terrassiers civils envoyés par la Bourse du Travail de Paris, qui se plaignent d’être trop près du front, mal logés, mal nourris, et préfèrent rentrer à Paris.
Le 2 août 1916, Octave est affecté à la Cie Hors Rang du 131e RI. En août, il séjourne au camp de Mailly dans l’Aube, où les 3000 soldats russes lui font une excellente impression. De mi-septembre à mi-novembre, il est dans la Somme, aux alentours de Bray-sur-Somme. Il y côtoie les soldats Anglais, dont il juge l’uniforme kaki moins visible que la tenue bleu horizon ; il rencontre des soldats malgaches employés à l’extraction de la pierre, ainsi que des soldats noirs travaillant à la réfection des routes, qui lui font peine à voir ; il croise des groupes de prisonniers allemands exténués de fatigue.
En janvier 1917, Octave Marchand rejoint sa Cie Hors Rang dans l’Aisne, aux environs de Berry-au-Bac, où il est chargé du cantonnement. L’hiver est très froid, la nourriture gèle. Il remarque les travaux de camouflage effectués sur les routes en prévision de l’attaque du 16 avril entre Reims et Soissons, et compte l’arrivée de 150 tanks. Les jours suivants, il voit passer les prisonniers allemands en piteux état. Fin mai, il apprend les actes d’indiscipline survenus, entre autres, sur le front de l’Aisne et note que des troubles ont eu lieu aux 4e, 82e, 113e et 313e RI du 5e Corps d’Armée. Le 16 juillet, il conduit six soldats appartenant à l’arrière, condamnés par les Conseils de guerre à remonter au front.
Le 19 juillet, à la suite d’une circulaire concernant les pères de quatre enfants, il quitte le 131e RI pour intégrer le 5e bataillon du 66e RIT (Régiment d’infanterie territoriale) basé au sud de Fismes. Avant son départ, il est décoré de la croix de guerre. Il devient fourrier de la 23e Cie, dont les hommes travaillent dans des carrières, sur les routes ou dans les gares.
Le 7 octobre, il visite un camp de prisonniers allemands établi à Mont-sur-Courville et constate que les Alsaciens et les Polonais y sont séparés des Prussiens, « car l’entente est loin de régner entre eux ».

Le 1er novembre, il est affecté à la TM 112 (Transport de matériel) et doit régler la circulation des voitures sur la route de Soissons à Reims. Sur cette route très fréquentée, il voit pour la première fois des autos et ambulances américaines.
Le 11 janvier 1918, il est affecté au 126e RI, près de Château-Thierry. Il y effectue des travaux de secrétariat administratif. Le 24 janvier 1919, il est démobilisé à Vincennes.

Dès la fin de la guerre, Octave Marchand commence à recopier ses carnets de guerre en y ajoutant des remarques ; il ne terminera leur copie qu’en 1952. Il recevra la médaille militaire en 1960 et la médaille de l’Argonne en 1963. La date de son décès n’est pas indiquée.
Ses cahiers ont été transmis par sa petite-fille à Geneviève Lavigne-Robin et son mari, qui en ont effectué la transcription, tandis que Nicole Fioramonti a rédigé la préface et des introductions historiques.

Octave Marchand refuse le nom de « poilus » : « Nous ne sommes pas des mousquetaires de l’ancien temps, à la recherche d’aventures et de glorification » (11-15.02.1915), et n’utilise jamais le mot « Boches ». Dès le 18 septembre 1914, il relève son insensibilité : « Ces douleurs, ces plaintes, cette horrible vision du sang qui coule à flot des blessures, n’ont plus d’effet sur moi ; mon cœur, jadis si sensible, est devenu dur comme pierre. »
Pendant les huit premiers mois de la guerre vécus sur le front, le ton de ses carnets est plus vindicatif qu’il ne le sera ensuite, à l’arrière. « Messieurs les Officiers de l’état-major auraient dû venir s’assurer de la difficulté de l’entreprise avant d’ordonner l’attaque [de Vauquois] avec de si faibles effectifs. C’est sacrifier beaucoup d’hommes inutilement, car nos pertes sont lourdes, le terrain est couvert de morts et de blessés » (09.12.1914). Et le 3 janvier 1915, il écrit : « les pauvres condamnés à mort que nous sommes ! »
Au Quartier Général de Clermont-en-Argonne, il est surpris de l’attitude des officiers : « Chaque jour, nos avions font des reconnaissances au-dessus des lignes ennemies, je remarque que les officiers de l’état-major n’ont pas l’air d’attacher grande importance aux rapports des aviateurs, qu’ils lisent, le sourire aux lèvres, en faisant parfois des réflexions désobligeantes pour les aviateurs » (11.04.1915).
En mai 1917, il attribue les mutineries à cinq causes : retard dans les tours de départ en permission, exercices et corvées inutiles pendant les périodes de repos, maintien des mêmes troupes d’attaque dans des secteurs devenus mortifères, influence des grèves, événements de Russie. Il s’indigne : « A Orléans, des femmes grévistes sont assez insensées pour crier : « Vive les Allemands » et jeter des fleurs à des prisonniers qui sont, peut-être, l’auteur de la mort d’un frère, d’un père, d’un mari, ou fiancé. »
En novembre 1917, il voit travailler des Sénégalais, des Malgaches et des Annamites sur la route de Soissons à Reims, et note : « Tous ces pauvres bougres paraissent transis de froid, dans notre climat brumeux et froid. Ils doivent, sans doute, eux aussi, regretter le beau soleil de l’Afrique et de l’Asie. Et que doivent-ils penser de la civilisation que nous leur avons inculquée ! »
Dans les dernières pages, Octave Marchand se livre à un vigoureux réquisitoire de 40 lignes dénonçant les souffrances des fantassins : « Il paraît que ce n’était rien d’avoir quitté foyer, famille, affaires, pour venir défendre son pays. […] Ce n’était rien que d’avoir risqué sa vie des jours et des nuits, d’être resté là, stoïque dans un fossé nauséabond, à la merci des balles de fusil et de mitrailleuses, des grenades, des obus de tous calibres, des gaz, des lance-flammes et de tous les engins de mort, inventés par les hommes […] », et termine en dénonçant l’injuste distribution des médailles.

L’Enfer au quotidien. Carnets de route du Sergent fourrier Marchand, Paris, Editions Osmondes, 1999, 487 pages.

Isabelle Jeger, juin 2016

Share

Deloule, Firmin (1892-1979)

Né le 31 août 1892 à Roynac (Drôme) dans une famille d’agriculteurs. Titulaire du certificat d’études primaires. Il est au service militaire au 159e RI à Briançon lorsque la guerre éclate. Il est démobilisé en août 1919 et il revient à Roynac sur l’exploitation familiale.
Il a tenu un journal. Après la guerre, il a recopié au propre sur un cahier les pages concernant l’année 1914. Pour la suite (1915-1918), il annonce qu’il a perdu ses notes et ne dispose que de sa mémoire, et il traduit ses souvenirs en vers « après plusieurs années ». Toutefois, s’ajoutent certains poèmes qui sont datés et localisés : « La Somme 1916 » ou « Au Chemin des Dames août 1917 ». Il est vraisemblable qu’ils aient été écrits au moment et que l’auteur les ait sauvegardés, à la différence des notes quotidiennes.
La plaquette 1914-1918 Mémoires de guerre, Firmin Deloule, 76 p., a été préparée par la Commission départementale d’information historique pour la paix de la Drôme, imprimée par IDS Valence en 2000, et destinée aux élèves du département et aux professeurs. Le lecteur est averti que la transcription respecte l’orthographe, mais est-on certain qu’on n’a pas rajouté des fautes de frappe ? Quelques pages reproduites en fac-similé montrent que l’écriture de l’auteur est parfaitement lisible ; tout le témoignage aurait vraisemblablement pu être donné en fac-similé. Des chronologies et des croquis accompagnent le texte.
Début août 1914, le 159e est envoyé surveiller la frontière des Alpes jusqu’à ce que l’on apprenne la neutralité de l’Italie. Il faut alors partir pour combattre les « barbares » en Alsace. Firmin Deloule a vu lui aussi le poteau frontière arraché et il signale l’accueil chaleureux d’un vieil Alsacien, ravi de voir revenir l’armée française. Le 19 août, il reçoit le baptême du feu, d’abord sans voir un seul ennemi, puis, envoyé en patrouille, il tue d’un coup de fusil son « premier Allemand ». Le 22 août, son bataillon se trouve dans un train tamponné par un autre, accident qui fait 94 morts et plus d’une centaine de blessés.
Le 25 août, le régiment arrive dans les Vosges et combat pour le contrôle du col de la Chipotte. Deloule signale plusieurs assauts à la baïonnette mais un seul corps à corps. Il souffre des bombardements, de la pluie, du manque de ravitaillement, compensé par la cueillette de pommes et de prunes. À deux reprises (p. 25 et 26), il emploie à propos des Allemands l’expression « ces s….. », mais on ignore si elle figure dans le texte original sous cette forme expurgée. Le village de Moyenmoutier a été pillé par les Allemands, mais leur retraite précipitée les a empêchés de se livrer « à d’autres projets infâmes ». Le pays est plein d’espions, « passés par les armes sans autre forme de procès ». Du 18 au 28 septembre, ce sont des combats difficiles autour de Senones.
« Après trente six heures de chemin de fer nous arrivions à Arras (Pas de Calais) le 30 septembre. » Le 2 octobre, il assiste à un combat de cavalerie entre Uhlans et Goumiers. Lui-même s’est creusé un trou ; deux blessés tombent sur lui et leurs corps le protègent des balles. Le creusement des trous se fait avec les outils adéquats, mais aussi avec la baïonnette, la cuillère, la fourchette. Le 27 octobre, « je dégringolais encore un Boche ». Le 16 novembre, arrivent les renforts de la classe 14. Pas de trêve à Noël, la fusillade est permanente. En janvier, c’est la pluie et la boue (p. 39). Il est évacué pour une légère blessure et une bronchite.
Commence alors la deuxième période, entièrement rédigée en vers, mais qui mêle souvenirs écrits après coup et poèmes datés qui rendent sensible l’évolution des sentiments. Après une deuxième évacuation, le voici à nouveau au dépôt du régiment, à Briançon, prêt à repartir. Son poème « Après un an de guerre » s’apitoie sur les « vides » dans les familles et souhaite la fin de ce « maudit fléau », que la paix vienne délivrer « l’Europe, le monde tout entier ». C’est la première mention de tels sentiments. Sur la Somme en 1916, il oppose les combattants qui souffrent et ceux qui, « à l’intérieur », continuent à danser.
En 1917 (mai ?), face au fort de la Malmaison, le régiment (172e RI) fait six attaques, refuse de faire la septième et part au repos « le fusil sur l’épaule avec la crosse en haut ». C’est dans l’Aisne en 1917 (sans autre précision, mais, là, elle n’est pas indispensable) qu’il écrit un poème sur les poux, « le fléau de cette guerre ». Plus tard, dans les Vosges (Le Violu), le régiment connait un secteur tranquille (« pas un coup de fusil, pas de bombardement ») où, d’une tranchée à l’autre, on échange des cigarettes contre des boules de pain car « chez eux cela ne tournait pas rond, ils avaient tous faim ».
Le poème intitulé « Pourquoi ? », daté de septembre 1917 (p. 63), s’en prend à la République, à Liberté, Égalité, Fraternité, des mots qui n’ont plus de sens quand les hommes politiques, « vulgaires coquins », ne savent que crier « jusqu’au bout ». Qu’ils sortent de leur bureau, qu’ils viennent risquer leur peau ! Il est vraisemblable que Firmin Deloule connaissait la Chanson de Craonne. Son poème est de la même inspiration et certains mots reviennent : « leur peau », « infâmes », « sommes nous condamnés », Messieurs « les grands ». Il se termine par : « À la Chambre que l’on s’occupe vivement / D’abolir cette affreuse guerre / Assez de crimes ! Assez de sang ! » D’autres poèmes de 1917 s’en prennent aux embusqués (p. 64), aux « ignobles bourreaux qui cachent tous leurs crimes sous les plis du drapeau » (p. 65).
L’expression « monter sur le parapet » est présente à deux reprises. Une première fois dans les souvenirs lorsqu’il dit que c’était la chose la plus terrible dans la guerre des tranchées : « Vague par vague nous montions, beaucoup étaient fauchés. » Et une autre fois dans le poème intitulé « 11 Novembre 1918 » (p. 72) lorsque la nouvelle de l’armistice permet enfin de « sortir sur le parapet » sans risquer la mort.
Les deux derniers poèmes, de 1918, illustrent une sorte de contradiction, ou une ambivalence, que Jean Norton Cru avait déjà bien remarquée dans certains témoignages. Un poème poursuit la critique des « gros » qui « nous font à tous crever la peau », et il les menace : « Dans le tombeau vous les sacrifiez / Il en restera bien assez / Prenez garde / Le destin vous regarde. » Mais l’autre poème, à peu près contemporain, célèbre de la façon la plus traditionnelle la gloire et l’honneur du 26e régiment d’infanterie, unité dans laquelle Firmin Deloule a terminé la guerre. « Dualisme déconcertant de la pensée », écrivait Jean Norton Cru (Témoins, p. 194).
Rémy Cazals, avril 2016

Share

Goutte, Henri (1891-1921)

Les frères Goutte naissent à Rochefort (Charente-Maritime) dans une famille originaire des Vosges. Leur père est militaire dans l’infanterie de marine, ce qui explique la naissance de ses deux fils dans la cité navale : Henri, le 16 juin 1891 ; Georges, le 2 novembre 1893. Le témoignage des deux frères est publié par Marie-Françoise et Jean-François Michel, sous le titre Georges et Henri de Bassigny, La Grande Guerre des frères Goutte 1914-1917 (Châtillon-sur-Saône, 1999, 183 p.) Voir la notice Goutte Georges.
Henri entame une carrière militaire et aspire à entrer dans l’aviation, mais il est affecté comme sous-lieutenant à une compagnie de mitrailleuses du 233e RI dans la Grande Guerre et il est fait prisonnier près de Douaumont le 23 février 1916. Il ne semble pas avoir tenu de carnet de guerre mais relate son expérience du front, sa capture et son évasion dans un court récit (36 pages) daté du 21 février au 14 avril 1916. Après son évasion, il revient sur le front.
Il débute son récit le 21 février 1916 à Louvemont (Meuse) où il « s’attend depuis plus de 15 jours à une attaque de la part des Boches ». À 7 h 15, « ça y est ! c’est l’attaque, il n’est pas trop tôt ». Il tient deux jours avant que son poste de mitrailleuse soit submergé, qu’il soit désarmé et fait prisonnier. De camp en camp, il se retrouve aux sources du Danube, à quelques dizaines de kilomètres seulement de la Suisse. Dès lors, il n’a qu’un objectif, l’évasion. Le 6 avril 1916, en compagnie des sous-lieutenants Billiet et Tréhout, il parvient à fausser compagnie à ses gardiens au cours d’une promenade et à passer la frontière. Les trois officiers sont accueillis en véritables héros puis rapatriés le 10 avril. Le 12, ils débriefent au ministère de la Guerre et Henri Goutte reprend le métier des armes. Son récit s’achève le 14 avril 1916 alors qu’il est en permission.
Le témoignage d’Henri se situe dans un triptyque combat-claustration-évasion rapidement brossé. La partie combat comprend trois dates, du 21 au 23 février 1916 (soit 5 pages), relatant l’attente anxieuse d’une attaque sous la voûte de l’artillerie. Sa capture est rapide et elle lui sauve la vie : « En 10 secondes, nous sommes désarmés. Je n’ai pas eu le temps de sortir mon browning. Aussitôt, nous sommes emmenés. Les Boches nous font franchir notre reste de tranchée et nos débris de fils de fer. Je suis dans une rage indescriptible. Mais que vois-je ? Des tuyaux, et au bout de chaque tuyau, un Boche à plat ventre, dans un trou à peine ébauché, la lance sous le bras. Ce sont des pétroleurs. Ils étaient prêts à nous envoyer des liquides enflammés et à nous rôtir comme de simples poulets. J’ai eu froid dans le dos. »

Yann Prouillet

Photo d’Henri Goutte dans 500 Témoins de la Grande Guerre, p. 234.

Share

Goutte, Georges (1893-1958)

Les frères Goutte naissent à Rochefort (Charente-Maritime) dans une famille originaire des Vosges. Leur père est militaire dans l’infanterie de marine, ce qui explique la naissance de ses deux fils dans la cité navale : Henri, le 16 juin 1891 ; Georges, le 2 novembre 1893.
Comme son frère aîné, Georges s’engage dans l’armée, affecté au 43e RI de Lille ; il est caporal en 1912. Il débute son carnet de guerre le 1er août 1914. Passé mitrailleur au 122e RI, il est blessé plusieurs fois au cours de la campagne. Il cesse brutalement son journal sans explication le 6 mai 1917. On sait qu’il a été gazé en août 1917 au Mort-Homme. Marié en septembre 1918, il se rengage pour partir au Maroc et atteint le grade d’adjudant-chef.
Le témoignage des deux frères est publié par Marie-Françoise et Jean-François Michel, sous le titre Georges et Henri de Bassigny, La Grande Guerre des frères Goutte 1914-1917 (Châtillon-sur-Saône, 1999, 183 p.) Voir la notice Goutte Henri.
Georges décrit le départ de Lille : « Tout le monde a des fleurs au bout du fusil. En ville, ovations. On nous jette des drapeaux. Tout le monde chante. À la gare, la musique joue les hymnes belge, anglais, russe, la Marseillaise et le Petit Quinquin, air populaire lillois. » Son baptême du feu est assez tardif, ce qui alimente les fantasmes d’un bourrage de crâne qui ne le quitte qu’après sa première blessure, au bras gauche, au sud de Montmirail (Marne), le 8 septembre 1914. Après plusieurs mois de convalescence, il revient en ligne à Montdidier le 14 février 1915 et s’installe dans la guerre de position. C’est ensuite le secteur de Mesnil-lès-Hurlus où il est à nouveau blessé au bras le 3 mai. Comme pour sa première évacuation, il ne dit rien de l’expérience de sa blessure, certainement grave puisqu’il ne reprend son récit que le 25 janvier 1916, en instruction au camp du Causse près de Castres. Mitrailleur au 122e RI, il arrive à Soupir, sous le Chemin des Dames, secteur qu’il occupe jusqu’en juillet. Forte tête, n’aimant pas les supérieurs critiquables, il reste caporal. Il apprend qu’il est enfin nommé sergent le 1er juillet, parce que son lieutenant a considéré qu’il a « mis de l’eau dans son vin ». Départ pour l’enfer de Verdun où le régiment a de lourdes pertes avant d’être envoyé « au repos » dans un secteur non moins difficile, en Argonne, à la Fille-Morte où sévit la guerre des mines. Sa description d’une explosion, de son effet, des blessés fous et du dégagement des hommes enterrés vivants dans les terres bouleversées est courte mais dantesque. Ses notes s’espacent à la fin de septembre 1916 et cessent le 6 mai 1917, vraisemblablement par lassitude.
Formant le cœur de l’ouvrage, le journal de Georges est éclairant sur l’état d’esprit d’un soldat qui n’a pas l’expérience du feu jusqu’au 8 septembre 1914 et qui multiplie les emprunts au bourrage de crâne et les on-dit d’une guerre fantasmée : « Les Allemands achèvent les blessés, et je me suis bien promis de ne pas leur faire grâce chaque fois que j’en aurai à la balle. J’en descendrai le plus possible, et pas de prisonnier ; tous « capout ». Je serai le premier à tirer sur les sales têtes carrées. » Confronté à la violence réelle et à la blessure, son retour au front change radicalement son discours ; son témoignage devient plus grave, plus dense et plus conforme à la réalité d’une guerre où le feu tue. Il est aussi plus critique sur le monde qui l’entoure et ses supérieurs. Dès lors, son récit prend plus d’intérêt ; loin du bellicisme des premiers jours, il manifeste de la compassion pour l’ennemi « vu de près ». Il n’en devient pas pour autant pacifiste et conserve de la haine lorsqu’il est confronté à la mort de ses copains : « Un de nos caporaux a été blessé au ventre. Il faudra que j’aille une fois en avant pour en descendre un de ces sales Boches. Je suis bien allé jusqu’au 2e réseau de fils de fer sans risquer beaucoup, et alors à l’affût dans un trou d’obus, j’attendrai le gibier. J’espère qu’il en viendra bien un à belle portée, et si je le vois… Pan… Capout. » Toutefois, ce dessein reste de l’ordre de l’imprécation, ce qui révèle la difficulté de donner la mort individuelle dans cette guerre.
La lassitude s’installe. Le 1er mai 1915, il dit : « Si on faisait grève aujourd’hui ? C’est le jour des manifestations, mais ici c’est difficile. » C’est après les officiers qu’il nourrit le plus de rancœur. Le même jour, devant les pertes de sa section : « C’est la plus éprouvée, elle est bien réduite maintenant cette pauvre 2e section. Nous ne sommes pas encore relevés aujourd’hui. Les hommes en ont assez, surtout depuis cette affaire, il faut à chaque instant que je leur relève un peu le moral. L’aspirant sort à peine de son trou. Encore un peu et je commanderai la section, car ils se terrent tous. » En mars 1917, il récidive devant un nouveau reproche injustifié de son lieutenant : « O Boches, si nous étions comme nos officiers, comme vous auriez la vie belle ! » Ce sont parfois les soldats qui subissent ses foudres, notamment les réservistes : « Et ces poilus du 342e, des vieux, des bancals, des tordus… Un lieutenant, chef de section, a dû faire sortir ses hommes à coups de pieds au cul au moment d’une alerte. » La lassitude aidant, il critique avec de plus en plus de virulence sa condition de soldat : « Quand donc cette existence de bagnards finira-t-elle ? 29 avril [1916] : sommes rentrés du travail à minuit, le même qu’hier, complètement éreintés. Je me suis accroché avec le lieutenant qui m’a fait couper les cheveux ras, comme un galérien. Les forçats les ont plus longs, j’en suis sûr, et on a plus d’égards pour eux que pour nous. Nous ne sommes pas des hommes mais des bêtes de somme de troupeau. C’en est à se révolter. C’est ignoble ce que l’on nous fait endurer de vexations, d’avanies. Les officiers sont des brutes qui, le ventre plein, ne se fichent pas mal si nous n’avons rien à nous mettre sous la dent. Allez travailler, hommes bêtes, pensent-ils, et encore il faut s’estimer bien heureux quand on n’est pas insulté. » Il évoque l’ivresse des soldats partant faire un coup de main qui échoue. Il parle de contacts, échange de pain contre eau-de-vie entre belligérants. Au final, le témoignage de Georges révèle un enthousiasme belliqueux qui laisse rapidement place, expérience de la guerre aidant, à un rejet de l’armée, de la guerre et de ses conditions de vie.
Yann Prouillet

Photo de Georges Goutte dans 500 Témoins de la Grande Guerre, p. 233.

Share

Brusson, Jeanne (1897-1983)

Voir les notices de son grand-père Jean-Marie Brusson, de son père Antonin Brusson, de sa mère Gabrielle Rous et de son frère André, le soldat de la famille en 1914-1918. Les archives de l’entreprise Brusson Jeune de Villemur-sur-Tarn (Haute-Garonne) contiennent de nombreuses lettres des divers membres de la famille pendant la guerre.
Jeanne et sa jeune sœur Marie-Louise (1899-1945) fréquentent le cours Dupanloup à Auteuil, et viennent en vacances à Villemur. Mais une jeune fille de bonne famille n’est jamais en vacances ; elle doit travailler à son trousseau, se perfectionner au piano, faire des confitures… La tradition est d’aller passer quelques semaines au bord de l’océan. En 1917, « il y a un monde fou à Arcachon et un monde qui vient faire du chic sans l’être vraiment », des « femmes mises avec des couleurs très voyantes », et les Russes qui ne veulent pas aller combattre les Allemands, « bouches inutiles qu’on a reléguées à Cazaux parce qu’on ne veut pas les renvoyer chez eux où ils aggraveraient la révolution ».
Après l’armistice, une lettre de Jeanne à André mérite d’être citée pour ses accents féministes : « Nous menons notre petite vie tranquille et monotone ne changeant pas d’une ligne avec celle de l’an dernier à peu près à la même date. Toi, tu changes perpétuellement de résidence, de camarades, de travail même. Les nombreuses adresses que nous avons accumulées le prouvent. Il est impossible que tu n’aies pas des sensations, des désirs, des ennuis même très vifs parfois. Mais tu ne te doutes peut-être pas de ce qu’est une vie de chrysalide dans un petit village de province et pendant la guerre, puisque la paix tant désirée n’est pas encore arrivée et que l’armistice n’a rien changé jusqu’ici à la vie commune. Un jour tu goûteras de la vie de petit village, mais pour toi ce ne sera pas une vie de chrysalide puisque tu ne seras jamais une jeune fille !!! et qu’en arrivant ici tu seras obligé de déployer toute ton énergie et tout ton savoir pour une œuvre utile et positive. »
Jeanne Brusson a épousé Gontran de Peytes de Montcabrier le 20 septembre 1922.
RC
*Rémy Cazals, « Lettres du temps de guerre » dans le livre collectif du CAUE de la Haute-Garonne, La Chanson des blés durs, Brusson Jeune 1872-1972, Toulouse, Loubatières, 1993, p. 70-128, illustrations.

Share

Brusson, Jean-Marie (1840-1916)

Fondateur de l’entreprise de pâtes alimentaires Brusson Jeune à Villemur-sur-Tarn (Haute-Garonne). Pendant la guerre de 1914, c’est son fils Antonin qui la dirige (voir ce nom et ceux des autres membres de la famille). On a de lui quelques lettres adressées à son petit-fils André. Jean-Marie Brusson est mort le 3 juillet 1916.
*Rémy Cazals, « Lettres du temps de guerre » dans le livre collectif du CAUE de la Haute-Garonne, La Chanson des blés durs, Brusson Jeune 1872-1972, Toulouse, Loubatières, 1993, p. 70-128, illustrations.

Share

Brusson, Antonin (1865-1940)

Dans les papiers de l’entreprise de pâtes alimentaires Brusson Jeune, de Villemur-sur-Tarn, aujourd’hui déposés aux Archives de la Haute-Garonne, figurent des dossiers contenant une correspondance de 1914-18 : 137 lettres ou cartes postales adressées au patron (Monsieur Antonin) par le personnel sous les drapeaux ; 239 lettres écrites à sa famille par le fils d’Antonin, André, mobilisé (voir la notice Brusson André) ; et les lettres écrites à André par Antonin et les autres membres de la famille. C’est la guerre, crise et séparation, qui a fait naître une telle documentation, textes qui se recoupent, se répondent et révèlent rapports de fidélité et de confiance, conflits larvés et explosions.
Lettres d’ouvriers
Les lettres envoyées au patron par les ouvriers témoignent de fidélité et de fierté d’appartenir à une entreprise dont la production renommée est appréciée jusque sur le front. Ainsi un salarié mobilisé comme infirmier : « De la guerre, je vous adresse avec mon bon souvenir mes respectueuses salutations. Je me félicite d’avoir eu à préparer un macaroni de notre maison pour MM les médecins de la 2e ambulance de la 38e Division, tous méridionaux. Le produit parfait a été très apprécié. » Plusieurs demandent à « Monsieur Antonin » de donner du travail (donc du pain) à leur femme et aux familles de Villemur. Antonin Brusson fait distribuer des mandats par un cadre, lui-même mobilisé comme sous-officier (Jacques de Saint-Victor, voir ce nom). Le contenu des lettres au patron passe de l’exaltation du début à l’expression d’un malaise. Les soldats n’écrivent plus « maudite race » à propos des Allemands, mais « maudite guerre », alors qu’ils connaissent les sentiments patriotiques des Brusson. En décembre 1914, Alexandre Beauvais (voir ce nom) écrit que les souffrances sont telles qu’il a souhaité la mort. Bien d’autres expriment des sentiments identiques. François Vacquié (voir ce nom), en remerciant pour le mandat de 10 francs et en décrivant sa situation dans la boue et sous la pluie, ajoute : « Mais ne faites jamais savoir à ma femme que je suis ici dans un si mauvais état » (27 décembre 1914). Certains demandent à être rappelés à l’usine ou sollicitent un piston pour passer dans l’aviation. Ce qui a été fait pour André, le fils d’Antonin.
La vie à Villemur-sur-Tarn
Les lettres adressées au soldat décrivent les difficultés de la production industrielle, les pénuries de matières premières et de moyens de transport terrestres qui nécessitent de relancer la navigation sur le Tarn. On manque aussi de personnel qualifié, ce qui conduit Antonin Brusson à confier des travaux de comptabilité à son épouse Gabrielle Rous (voir ce nom).
Le manque de personnel touche aussi les exploitations agricoles des Brusson. « Cette année-ci [1915], nous serons tous très malheureux », écrit le grand-père Jean-Marie en évoquant les mauvaises moissons et les décevantes vendanges. « Papa a acheté une espèce de grosse machine, ressemblant à un tank, pour labourer », écrit Jeanne Brusson, fille d’Antonin, en juillet 1917. Et cela ne suffit pas : « Je souhaite qu’on fasse beaucoup de prisonniers pour que Papa puisse avoir les dix ou vingt qu’il désirerait en ce moment et qu’on lui refuse. » Lorsqu’on les lui accorde, les gens admirent leur rendement au travail.
Rémy Cazals
*Rémy Cazals, « Lettres du temps de guerre » dans le livre collectif du CAUE de la Haute-Garonne, La Chanson des blés durs, Brusson Jeune 1872-1972, Toulouse, Loubatières, 1993, p. 70-128, illustrations.

Share